Pineta di Classe

E’ fondato ritenere che da tempi antichissimi, lungo tutta la fascia litoranea, si siano sviluppati grandi boschi. Non è invece documentata con certezza la presenza di un pineto al tempo di Augusto, come indicano alcune ipotesi secondo le quali il legname di pino sarebbe stato utilizzato per le strutture portuali e le costruzioni navali dell’antico porto di Classe. In ogni caso questa pineta antica non poteva includere l’attuale pino domestico, ma semmai il pino silvestre o pino d’Austria e il pino marittimo. Infatti, secondo gli studiosi, il pino da pinoli o pino domestico (Pinus pinea) potrebbe essersi insediato spontaneamente nel nostro territorio, al limite settentrionale del suo areale, attorno all’anno Mille, in un periodo più caldo dell’attuale, ma più probabilmente potrebbe essere stato introdotto artificialmente dall’uomo. Inoltre non è provata continuità temporale tra le pinete ricordate alla fine del V secolo, in seguito ad eventi bellici avvenuti nel territorio classicano che videro protagonisti Odoacre e Teoderico, e quelle menzionate nei documenti di inizio XII secolo.

I boschi litoranei, pinete o meno che fossero, dai tempi attorno all’anno Mille, risultano attribuiti a comunità monastiche attraverso concessioni dette enfiteusi. Le quattro abbazie concessionarie, S. Vitale, Classe, Porto e S. Giovanni Evangelista, furono proprietarie di fatto delle foreste litoranee per almeno sei/otto secoli, fino alla svolta napoleonica, acquisendo un ruolo politico ed economico importantissimo nel quadro ravennate. Frequenti furono le liti tra la Comunità cittadina e le abbazie sui diritti di legnatico (jus lignandi) e di pascolo (jus pascendi), regolamentati con il breve emanato il 25 febbraio 1588 da papa Sisto V, che per tutto il tempo dell’antico regime, pur tra deroghe e conferme, costituì la norma fondamentale di riferimento nella gestione delle pinete. I monaci dunque, nonostante le accuse di operare più nell’interesse proprio che per la tutela del bosco, svolsero un ruolo fondamentale nella conservazione e valorizzazione delle pinete, coltivandole con regolari interventi di semina. I pinoli o pignoli di Ravenna, erano merce pregiata e riconosciuti come prodotto tipico locale; per secoli garantirono alle abbazie, che ne avevano l’esclusiva per la raccolta, considerevoli entrate economiche.

L’arrivo dell’esercito francese determinò a partire dall’estate 1797 la soppressione dei conventi ravennati e il conseguente esproprio dei loro beni. Il monastero di Classe fu soppresso il 22 agosto 1798. Le foreste pinetali entrarono quindi a far parte dei “beni nazionali”, sotto la gestione della municipalità. Fece eccezione la proprietà della soppressa abbazia di Porto che, acquistata da una quindicina di nobili e borghesi ravennati, fu avviata ad una rapida e redditizia opera di disboscamento e alla graduale bonifica dei terreni. Passata la bufera napoleonica, le pinete demaniali di San Vitale, Classe e San Giovanni tornarono di proprietà dello Stato pontificio, che nel 1836 le concesse in enfiteusi perpetua alle Canoniche Lateranensi di San Pietro in Vincoli e San Lorenzo fuori le mura di Roma. Nel frattempo dal 1832 era stato stipulato un contratto d’affitto con la Società Marucchi e Moschini che per un trentennio, dietro un modesto canone annuo, gestì senza controllo alcuno, poiché i guardiani pinetali erano stipendiati dalla Società, la raccolta dei pinoli e il taglio degli alberi, determinando un grave deperimento del bosco. Nel 1860, alla vigilia dell’Unità nazionale, il governo dello Stato Pontificio tramutava l’atto di enfiteusi delle pinete ravennati in atto di alienazione a favore della romana Canonica di San Pietro in Vincoli. A quel punto i canonici procedevano immediatamente alla vendita delle pinete al barone Aldo Baratelli al prezzo di 85.000 scudi, mentre Ravenna già dal 1859 si era affrancata dallo Stato Pontificio, entrando a far parte prima dell’Amministrazione dell’Emilia poi degli Stati Sardi.

Con il Regno d’Italia, per porre un freno agli abusi e allo sfruttamento della precedente gestione, Vittorio Emanuele II istituì nel 1862 una speciale Amministrazione per la sorveglianza, custodia ed incremento de’ pineti di Ravenna. Fu aperto un contenzioso giudiziario sulla legittimità dell’atto di compra/vendita stipulato tra i canonici lateranensi e il barone Baratelli mentre nel 1866 le pinete ravennati, attraverso un ampio dibattito parlamentare, divennero una questione nazionale, anche se la proposta di acquisizione dei boschi da parte dello Stato italiano, non fu approvata dalla Camera.

Intanto il Comune di Ravenna, che aveva già effettuato infruttuosi tentativi di riscatto negli anni 1797, 1822, 1835, 1859 e 1864, avviò nel 1872 la trattativa con gli eredi Baratelli. Il sindaco Gioacchino Rasponi fu il grande protagonista di tutta l’operazione che si concluse con l’acquisizione di 4.781 ettari di bosco, dei quali 1.305 della pineta di Classe, al prezzo di L. 400.000 a cui si aggiunsero L. 175.000 da versare allo Stato per la cessione dei diritti. Il 4 gennaio 1874 il Comune di Ravenna prese formale possesso delle pinete e vi insediò i propri guardiani. Dopo l’entusiasmo iniziale, si registrarono i primi contrasti legati alla gestione delle aree pinetali, agli interventi di rimboschimento e di conversione all’agricoltura  delle zone di bosco più compromesse.

Mentre si sviluppava il dibattito, con toni molto accesi, una eccezionale serie di gelate verificatesi dal dicembre 1879 al febbraio 1880, determinarono il disseccamento di molte migliaia di pini domestici, la risorsa più remunerativa del bosco, al punto che si temette per la sorte delle intere pinete ravennati. Fatta eccezione per alcune zone interne della pineta di Classe, i pini adulti apparivano ovunque  morti o gravemente deperiti e ancor peggio era completamente perduto il novellame. Il Comune venne quindi a trovarsi di fronte a un’emergenza imprevista che aggravò le tensioni tra chi voleva il recupero del bosco (pinetofili) e coloro che erano favorevoli al totale abbattimento degli alberi (pinetofobi), per dare terreni all’agricoltura e lavoro alle migliaia di braccianti disoccupati. Il Comune optò per una soluzione di compromesso, con la salvaguardia dei nuclei storici delle pinete di San Vitale e Classe, operando una intensa azione di recupero, mentre contemporaneamente deliberava l’abbattimento del pineto di San Giovanni, che si estendeva tra il Bevano e il fiume Savio.  Anche le propaggini settentrionali della pineta di Classe furono destinate alla bonifica agricola; così furono disboscate le zone della Sacca e del Teatro della Saviola.

All’inizio del XX secolo, le leggi promosse dal senatore Luigi Rava, determinarono la nascita delle pinete demaniali litoranee, lungo tutta la fascia costiera ravennate. Le superstiti pinete storiche di Classe e San Vitale, subirono ulteriori danni sia nel corso delle due guerre mondiali, per soddisfare la richiesta di legname per esigenze belliche, sia a causa delle gelate in alcuni inverni particolarmente rigidi. Nel secondo dopoguerra, lo sviluppo industriale e turistico arrecarono un ulteriore deperimento, mentre con l’abbandono della coltivazione la pineta si trasformò gradualmente in bosco misto, vista la difficoltà del pino domestico a rinnovarsi naturalmente per le sfavorevoli condizioni climatiche, aggravatesi con il fenomeno della subsidenza. Pur nel loro travagliato percorso, le pinete ravennati, considerate tra le aree più produttive e ricche di biodiversità, offrono appieno la dimensione territoriale di un luogo in cui anche l’ambiente parla il linguaggio della storia.